Autogestione dello spazio pubblico

24 marzo 2014
DOC

da il manifesto, 30 maggio 2012 (f.b.)

Scene di vita di neo-bohème di Adriano Solidoro

Molto si è già detto a proposito dell’occupazione della Torre Galfa, e successivamente di Palazzo Citterio, da parte del collettivo artistico milanese Macao. E molto se ne dirà ancora, perché è una vicenda che non può dirsi conclusa con gli sgomberi. A Milano la discussione è ancora accesa e le domande che sono emerse, per la politica e per la città, sono tante. Il dibattito si è per lo più fin qui concentrato sulle questioni legate alle condizioni della legalità dell’occupazione o sulle ragioni e la forma di protesta degli occupanti. Come è giusto. Come è ovvio. E tuttavia, a mente fredda e con animi rasserenati, l’intero tema può essere valutato in un’ottica differente, appropriata alla complessità degli interessi in gioco, che non sono solo quelli della proprietà degli immobili o di un gruppo di «creativi», ma di aree urbane, di comunità, della città tutta.

Si è per esempio appena sfiorato il tema dell’integrazione, tra politiche cittadine e politiche culturali, delle opportunità che possono nascere da un inserimento della scena artistica indipendente in queste strategie. Il modello è quello di città come Parigi, Londra, Berlino, Amsterdam e Amburgo dove gli edifici abbandonati, anche privati, possono essere affidati agli artisti con la vigilanza delle amministrazioni o dove associazioni nate occupando abusivamente spazi vuoti, ora collaborano con l’ amministrazione cittadina, dando il proprio contributo di innovazione e creatività. Certo, le «buone pratiche» internazionali, anche quelle eccellenti, non sono ricette che vanno bene per tutti e per ogni città, come differenti sono le comunità per natura e obiettivi. Ma sono comunque opportunità di apprendimento intorno a un denominatore comune, quello dell’integrare, nelle politiche e nelle strategie cittadine, pratiche alternative di innovazione in sistemi locali capaci di offrire discontinuità ad alcuni contesti in degrado.

Notti bianche a Stalingrad

I modelli proposti da queste città enfatizzano anche come molte attività culturali abbiano ormai luogo al di fuori della sfera dell’ufficialità. Radio di quartiere suonano la musica di band do it yourself, esperimenti di Social tv allestiscono propri palinsesti sui contenuti prodotti dagli utenti, documentari indipendenti hanno festival dedicati e vengono proiettati anche nelle scuole, e performance artistiche partecipative, giochi urbani e iniziative di guerrilla gardening reinventano lo spazio urbano a beneficio della comunità. Si tratta di pratiche emergenti che, pur fuori dalle logiche commerciali e dalle costrizioni dell’accademia e della moda, indicano la necessità di superare la distinzione tra cultura e controcultura, mainstream e underground, popolare e avanguardia, entertainment e sperimentazione. L’eclettismo è il tratto distintivo di questa produzione culturale.

Agli appuntamenti organizzati dai centri sociali partecipa oggi un pubblico eterogeneo, che varia da coloro che si riconoscono nell’area della dissidenza, a studenti, a giovani professionisti, fino a artisti e designer già affermati che ricercano nell’atmosfera underground il tocco dell’autenticità. E nei negozi di design, agli oggetti proposti dai grandi nomi si affiancano quelli realizzati con materiale di riciclo da piccole botteghe artigianali. Si tratta insomma di una produzione (e di un consumo) eclettico e onnivoro, che si destreggia tra i diversi stili e registri. È il fenomeno della neo-bohème, così come lo ha definito Lloyd Rodwin studioso del Mit e autorità mondiale nel campo della pianificazione urbana. Un contesto culturale in cui le espressioni di arte indipendente non sono più interpretabili esclusivamente come in opposizione alla cultura mainstream o come resistenza alla cultura egemonica, ma come «nicchie» di mercato. Nicchie nelle quali alcune città hanno già cominciato a riconoscere una risorsa significativa, a dimostrazione che nei governi locali cresce la consapevolezza delle opportunità provenienti da politiche culturali non limitate alla fornitura di servizi locali. Sostenere le arti e la cultura, anche quella alternativa e indipendente, è anche sostenere lo sviluppo (e la ripresa) dell’economia locale.

Ma come può avvenire l’integrazione tra politiche urbane e culturali e scena artistica indipendente? A Parigi, l’integrazione è avvenuta in concomitanza con l’elezione a sindaco di Bertrand Delanoé nel 2001 (poi rieletto nel 2008). Dopo 25 anni, il controllo del governo locale tornava a un Consiglio comunale socialista e il mutamento politico si è presto tradotto in nuovi orientamenti. Agli artisti viene concesso l’utilizzo di spazi temporanei per lavorare e esporre, oltre all’opportunità di offrire attività culturali alle comunità dei quartieri. Così facendo, l’amministrazione cittadina si attribuisce il merito dell’emergere di nuove scene culturali e creatività locali, le quali rappresentano potenziali fattori di messa in moto di dinamiche di riqualificazione urbana. Per le aree interessate, la presenza di artisti in spazi in disuso rappresenta un valore simbolico, ma anche economico, in un’ottica di rivitalizzazione (e rivalutazione) che passa anche attraverso le attività culturali. È una strategia non priva di opportunismo, ma per gli artisti rappresenta un riconoscimento del proprio ruolo sociale, oltre che una concreta opportunità.

Il caso del quartiere La Chapelle- Stalingrad illustra bene come la dinamicità della scena artistica indipendente possa rappresentare uno strumento di pianificazione e come gli artisti indipendenti possano essere vettori simbolici del passaggio dal degrado all’allure bohème. A lungo trascurata dalle autorità locali, l’area di La Chapelle-Stalingrad ha ospitato dal 2001 diversi tipi di intervento urbano, alcuni dei quali sono stimolati dalla partecipazione di collettivi della scena indipendente. Numerosi spazi in disuso vengono destinati ad attività culturali e artistiche. La maggior parte delle performance durante la prima Nuit blanche (idea poi esportata in tutto il mondo) si è tenuta qui, così come altre iniziative simbolo del cambiamento di orientamento culturale e politico di Parigi. Iniziative che sono state strumenti di marketing locale e «city branding» rivolti alla cittadinanza, per comunicare quanto le autorità locali facciano per la comunità, e al tempo stesso azioni per attrarre turisti, nuovi residenti e investimenti.

Concedere l’utilizzo temporaneo a comunità di artisti è anche un vantaggio per i proprietari degli immobili che in questo modo evitano la fatiscenza degli spazi e il rischio di occupazioni illegali. L’azienda delle ferrovie francesi, Sncf, proprietaria di molte aree in disuso del quartiere di La Chapelle-Stalingrad, per esempio, ha messo in atto una strategia interessante (non meno opportunistica) per affrontare il problema. Nel momento in cui un edificio è vuoto e non è oggetto di piani di recupero specifici, l’azienda autorizza associazioni no-profit e collettivi artistici a occuparli. Ciò con grande vantaggio del quartiere, in quanto fruitore di servizi sociali ed attività culturali.

Tra le macerie del Muro

In linea con le politiche culturali cittadine, il Comune parigino ha steso nel 2006 la prima convenzione di occupazione, un contratto fiduciario per l’occupazione temporanea ma legale di un immobile da parte di una comunità di artisti. Dal 2006 a oggi, altri 17 collettivi hanno sottoscritto lo stesso tipo di contratto di occupazione. La convenzione stabilisce che il Comune possa visionare l’attività degli occupanti, i quali si impegnano a curare la manutenzione dell’immobile e a svolgere attività artistiche, senza fini di lucro. Ogni situazione viene vagliata nella sua specificità. Se valutata positivamente, l’occupazione viene concessa per un periodo di tempo dietro il pagamento di un affitto di locazione per lo più simbolico.

Altri esempi di politiche cittadine che integrano luoghi di produzione artistica indipendente nel tessuto culturale ed economico vengono da Berlino. Nonostante il grande sviluppo urbanistico seguito alla Caduta del Muro, il paesaggio della città rimane disseminato da una grande quantità di spazi vuoti e aree interstiziali in stato di degrado. Siti in disuso che possono venire concessi temporaneamente o ad interim a vari attori urbani, attivisti o artisti, associazioni o imprenditori culturali. Questo tipo di utilizzo degli spazi si innesta nelle politiche economiche e urbane e nelle narrazioni orientate alla promozione di Berlino come «città creativa». Narrazioni riprese e diffuse dai media negli ultimi dieci anni.

Nel 2001, come a Parigi anche a Berlino si insedia al governo della città una coalizione di sinistra. Guidata dal sindaco Klaus Wowerei (attualmente al terzo mandato), la giunta eredita una città sull’orlo della bancarotta e ben poco spazio di manovra. Rispetto ad altre città tedesche, il tasso di crescita di Berlino è rimasto basso mentre quello della disoccupazione è in crescita. Uno dei pochi settori floridi è quello delle industrie creative. Diversi fattori spiegano la rapida crescita di questo settore a Berlino: in particolare la disponibilità di abitazioni a buon mercato, una preesistente concentrazione di realtà culturali alternative e una scena musicale e artistica che attrae giovani imprenditori culturali da tutto il mondo. L’utilizzo temporaneo di immobili in disuso è la conseguenza della necessità di spazi da parte di questa scena di sperimentazione culturale e artistica. Un esempio ne è Skulpturenpark, un progetto culturale e artistico collaborativo pensato da un collettivo di artisti attivisti che dal 2006 dà vita ad attività artistiche e interventi site-specific per la rivitalizzazione del quartiere di Mitte, un’area già lottizzata per costruzioni future.

Anche a Londra, la concessione di spazi temporanei ad artisti è una politica diffusa. L’Arts Council e alcune associazioni di artisti mediano con i proprietari di immobili per concessioni temporanee di spazi in disuso in cambio di lavori di restauro e manutenzione o dietro pagamento di locazione a prezzi molto vantaggiosi. La zona sud di Peckham è quella che negli ultimi anni ha visto il maggior numero di occupazioni. Zona associata all’alto tasso di criminalità e alle gang giovanili più che all’arte, Peckham è oggi teatro di una fiorente scena artistica indipendente che si avvale dei molti spazi industriali dismessi in prossimità di due importanti scuole d’arte, Goldsmiths School of Arts e Camberwell College. Scena artistica neo-bohème che partecipa alla riqualificazione dell’area attraendo molti artisti emergenti. Le occupazioni possono sembrare a molti sinonimo di degrado e marginalità, ma le molte realtà di Parigi, Berlino, Londra – e anche di Amsterdam e Melbourne, città che conducono politiche simili – testimoniano che artisti indipendente, collettivi, attivisti e centri sociali possono essere agenti di cambiamento, ricoprendo il ruolo di pionieri nel recupero di aree urbane.

Conflitti e mediazioni

Una prospettiva, tuttavia, non priva di problemi. Così come è avvenuto per Berlino, e in misura diversa per Parigi, è necessaria una rivisitazione delle procedure di pianificazione e di concessione. dato che gli utilizzi temporanei degli immobili non sono normalmente considerati come una fase del ciclo di vita dello sviluppo urbano, ma vengono associati a periodi di crisi, di mancanza di visione e di pianificazione. Tuttavia, al di là dei preconcetti, gli esempi di dinamicità di gallerie d’arte, teatri, spazi per attività temporanee dimostrano che questa prassi di utilizzo può diventare un elemento proficuo e innovativo nella cultura urbana contemporanea. In un periodo di restrizioni finanziarie e di devolution, in cui i governi locali dispongono di possibilità di investimento molto limitate, l’esempio, in particolare, di Berlino mostra come l’innovazione culturale nasca spesso in città «in crisi», che soffrono di un processo di deindustrializzazione, di crescita lenta o di contrazione.

Ulteriori problemi derivano dalle potenziali situazioni di conflittualità. Integrare l’attenzione ai movimenti alternativi o della controcultura nelle politiche urbane e culturali e nei discorsi del city marketing significa per le autorità locali sostenere – sebbene con cautela, e a volte persino nervosamente – forme di differenziazione e di alterità che possono anche essere in opposizione al proprio esercizio. Senza contare le difficoltà legate al ruolo di mediatore di cui il governo locale si deve far carico, dovendo equilibrare la richiesta di spazi con la disponibilità a concederne l’utilizzo da parte della proprietà. Né mancano questioni di sicurezza da considerare con attenzione. E ancora: spesso, anche in presenza di un accordo contrattuale che sancisce la temporaneità dell’occupazione, gli occupanti non intendono andarsene o chiedono di essere ricollocati altrove. I casi recenti di tentativo di sgombero di luoghi istituzionalizzati, e ormai luogo di pellegrinaggi turistici, dal quartiere Christiania a Copenhagen ai collettivi artistici di Les Frigos a Parigi e di Tacheles Berlino, sono lì a dimostrarlo. Inoltre, consapevoli del rischio di perdere la propria controcultura identitaria firmando un contratto o una convezione che implicitamente riconosce i benefici del sostegno culturale e amministrativo delle istituzioni, molti artisti mantengono un approccio antagonista verso la struttura pubblica. Così, pur ottenendo la disponibilità di utilizzare spazi offerti, preferiscono, fedeli al principio di mobilità, l’occupazione illecita di altri immobili. È la scelta, per esempio, per la quale ha optato Macao, che pure ricevendo l’apertura al dialogo della giunta Pisapia e l’offerta di spazi alternativi alla Torre Galfa, non ha voluto riconoscere la validità dell’interlocuzione e ha occupato Palazzo Citterio come atto dimostrativo dell’indipendenza del movimento.

Una nuova flessibilità

Si capisce quindi quali e quante siano le sfide poste dalle pratiche di uso temporaneo. Sfide lanciate alle forme convenzionali di pianificazione urbana, ma anche lezioni sulle opportunità di impiego delle risorse e sulle nuove forme di flessibilità ben diverse dai processi di sviluppo proposti dalla pianificazione delle autorità pubbliche o dal mercato.
La Rivoluzione Culturale di Sandro Medici
Nella loro ritmica ormai battente e incalzante, le varie occupazioni “culturali” che si vanno moltiplicando nelle nostre città (l’ultima, Macao a Milano) stanno lì a segnalare che sta emergendo un nuovo bisogno che rivendica un nuovo diritto: quell’urgenza immateriale a costruire e a esprimere un proprio immaginario. Un impulso sociale intensissimo, esito della nostra contemporaneità, ma sequestrato da un sistema pubblico-privato mediocre, conformista e discriminatorio.

In queste lotte affiorano pratiche e contenuti che alludono a un nuovo modello di creare arte e cultura: sia per le modalità collettive, condivise, partecipate, insomma democratiche con cui si gestiscono le occupazioni, sia per il rifiuto di gerarchie disciplinari e formali della produzione artistica che si promuove al loro interno.Attraverso l’autogoverno del ciclo produttivo si ribaltano i tradizionali rapporti tra chi progetta e chi esegue, tra chi realizza e chi fruisce. Con la riappropriazione diretta dei palcoscenici e delle platee si spezza il modello classico che finora aveva regolato e gestito la manifattura immateriale, dove c’è chi finanzia e chi dirige, chi riceve un salario e chi paga il biglietto: un modello autoritario ed escludente, a volte opaco, spesso clientelare. Al contrario, queste esperienze vivono in un regime di democrazia assoluta (quasi ossessiva), nel rispetto di tutti e ciascuno, dove si contribuisce “al massimo delle proprie possibilità” e si riceve “al massimo dei propri bisogni”.

Insomma, è in corso una rivoluzione culturale. Forse analoga a quella che tutto travolse negli anni Sessanta, quando gli “apocalittici” prevalsero sugli “integrati”, e finalmente anche in Italia irruppe il moderno.Ora come allora, la politica fatica assai a cogliere questo cambiamento. Con le istituzioni pubbliche sempre più omologate e parassitarie, oltreché scarnificate dai tagli nei bilanci, e il mercato privato sempre più standardizzato e scadente, nutrito dal peggiore sfruttamento e improntato alla più odiosa discriminazione. Il berlusconismo di questi ultimi anni ha totalmente deteriorato il sistema: non ci sono leggi e regole, non c’è incentivazione alla produzione né tutela del lavoro, non c’è più ricerca espressiva né si valorizzano opere e contenuti. Resta solo l’indegno rituale delle nomine nei consigli di amministrazione. Ci si continua a contendere i direttori artistici e si litiga per piazzare manager, consulenti e perfino parrucchieri e falegnami, a promuovere autori e interpreti e finanche l’ultimo figurante, l’ultimo orchestrale.

Intanto, da Roma a Catania, da Venezia a Napoli, si susseguono esperienze di movimento che rivendicano il diritto a una produzione culturale indipendente. Entrano nei teatri abbandonati e li riattivano per evitare che muoiano o che si trasformino in sale da gioco, supermercati, miniappartamenti, palestre, centri benessere e chissà cos’altro. Occupano spazi vuoti e inutilizzati per trasformarli in centri di creatività, dove accendere scintille di piacere, dove suonare e cantare, recitare e ballare, creare suggestioni, allestire feste e spettacoli, invitare la gente a stare insieme e accoglierla con un sorriso. Per riprendere una felice definizione di Guido Viale sul manifesto di venerdì scorso: «È una nuova declinazione del rapporto tra arte e vita».

Insomma, si libera la cultura dalla gabbia del mercato e si strappa alla speculazione il patrimonio immobiliare. A nessuno sfugge quanto tali esperienze, nel loro affermare il primato del valore d’uso sul valore di scambio, siano in assoluta controtendenza rispetto al dominante modello economico, totalmente asservito alla mercificazione di uomini e cose, così come di conoscenze ed espressività. Bisogni e interessi opposti che depositano un antagonismo inconciliabile, che a sua volta, inevitabilmente, precipita in conflitto sociale: come quello che si sta consumando a Milano su Macao e dintorni. E prim’ancora, l’Angelo Maj, il teatro Valle, il cinema Palazzo, l’Astra, Garagezero, a Roma. E in tante altre analoghe battaglie, un po’ dappertutto.C’è insomma in questo paese una vastissima area creativa, un insieme di professionalità, intelligenze, risorse, talenti che finalmente (e liberamente) affrontano a viso aperto la contemporaneità. Un movimento che non essendo né pubblico né privato, sfugge sia alle liturgie istituzionali che ai parametri del mercato. Tutta questa vitalissima animazione, avventata quanto determinata, restituisce una domanda politica che non può più restare inevasa, o peggio rifiutata e sgomberata.In altri paesi, in Germania, in Francia, questo tipo di esperienze vengono valorizzate e perfino finanziate: diventano servizio sociale, offerta culturale. Qui da noi, al contrario, sono scoraggiate, contrastate e a volte represse.

E ciò accade non solo per tutelare le accademie, i manierismi, gli agonizzanti repertori che stancamente ripropongono istituzioni culturali sempre più polverose e sempre più dipendenti dal potere politico. Ci si scaglia contro questi movimenti anche per salvaguardare le rendite immobiliari, i profitti speculativi, gli utili finanziari che ormai imprigionano l’urbanistica delle nostre città. Per difendere quei luoghi e quegli spazi, i tanti luoghi e i tanti spazi che sarebbero necessari per ospitare e far crescere la cultura indipendente. Quelle stesse volumetrie che i sindaci vengono obbligati a vendere per compensare la riduzione dei bilanci comunali e, nello stesso tempo, consentire la ripresa del mercato immobiliare.In tutte le nostre città c’è un consistente patrimonio dismesso e inutilizzato, edilizia residuale, volumetrie abbandonate, scatole vuote sparse nei quartieri. Forti, caserme e rimesse militari, ex stabilimenti produttivi, depositi inutilizzati, ex mercati, parcheggi, magazzini in disuso, fabbricati svuotati di funzioni. Tutta questa cubatura potrebbe essere ristrutturata e restaurata e poi riconvertita verso un utilizzo culturale, affinché diventino (o tornino a essere) beni comuni disponibili.

È un patrimonio immobiliare che va strappato alla logica della valorizzazione privata e riadattato a ospitare cantieri e laboratori creativi. Antenne e terminali insieme: sonde che intercettano il bisogno di socialità, collettori dell’offerta di servizi territoriali. Officine aperte a ciclo continuo che vivano di progetti ed esperienze, ma anche di semplici spunti e fantasie: che ascoltino e selezionino idee e proposte, nuovi linguaggi e nuovi strumenti, individuino e allevino nuovi talenti e nuove espressività, sui quali costruire stupori e fascinazioni, via via in grado di suscitare un salto nell’immaginario collettivo.Un circuito di “casematte” che facciano da contrappunto vitale alla monotonia urbana. Luoghi che favoriscano le condizioni affinché si sviluppi un processo condiviso, lungo il quale più soggetti intervengano. In un democratico e scambievole itinerario di autoformazione, con l’obiettivo di realizzare un prodotto culturale inclusivo. Una creatività che certo coinvolga emotivamente, susciti piacere, entusiasmo, ma anche costruisca coscienza critica, consapevolezza civica, e non da ultimo attivi percorsi professionali, sviluppi economie, distribuisca reddito, inauguri modelli di gestione innovativi.

Un programma di alfabetizzazione sociale, un grande progetto di animazione artistica. Ecco quel che ci vorrebbe per movimentare e stimolare la scena territoriale: inoculare globuli rossi nei nostri anemici e impauriti quartieri. Va da sé che un progetto di questo genere potrebbe perfino svelenire quelle relazioni umane sempre più ostili e incattivite. Ritrovarsi insieme in circostanze fuori dall’ordinario, come corpi senzienti disposti e fors’anche inclini all’allegria in una festa, durante uno spettacolo, non più annidati e barricati nei propri ridotti condominiali, alleggeriti dai consueti risentimenti, insomma gli uni vicini agli altri, a guardarsi e annusarsi, crea quel composto di chimica molto organica, quella tensione magnetica che possono facilmente suscitare cordialità e vicinanza, sentimenti di reciproca disponibilità.Oggi, grazie alle battaglie di riappropriazione culturale che attraversano il paese, tutto ciò potrebbe diventare possibile. Certo, aiuterebbe se sindaci e ministri, istituzioni e partiti riuscissero a capire che l’arte e la cultura sono soprattutto pratica sociale.

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