L’opinione di Edoardo Salzano

23 marzo 2014
DOC

Editoriale sullo spazio pubblico

Autore: Edoardo Salzano Data di pubblicazione: 29.01.2009
Gli spazi pubblici sono l’anima della città e la ragione essenziale della sua invenzione; sono il luogo nel quale nella quale società e città s’incontrano, nel quale il privato diventa pubblico e il pubblico si apre al privato. Uno dei segni più gravi della crisi attuale è nel fatto che gli spazi pubblici sono oggi a rischio, minacciati da mille tentativi di privatizzazione e mercificazione.

Non da oggi nascono il rischio per lo spazio pubblico della città e il suo indebolimento nella vita della società urbana. Lo testimonia il tentativo, in corso ormai trionfalmente da qualche decennio, di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, caratterizzati dalla ricerca dei requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): la recinzione mentre la piazza è aperta, la sicurezza mentre la piazza è avventura, l’omologazione mentre la piazza è differenza e identità, la natura delle persone che la abitano, clienti anziché di cittadini, la distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità. E lo testimonia, da tempi ancora più lontani, la scomparsa degli spazi pubblici da grandissima parte delle periferie che da molti decenni circondano e affogano la città, costituendone la componente quantitativamente più importante.

La visione e i progetti di eddyburg

Eddyburg ha una visione molto ampia dello spazio pubblico nella città, e una percezione molto viva dei rischi che esso corre. Per noi lo spazio pubblico ha il suo punto di partenza nell’archetipo della piazza, ma permea l’intera concezione della “città come bene comune”. La lotta per una quantità e qualità adeguata degli spazi pubblici ha un suo momento significativo, in Italia, nella faticosa conquista degli “standard urbanistici”, ma vuole allargarsi oggi ad altri elementi e altre esigenze; del resto, fin dagli anni degli standard urbanistici la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si è saldata, diventando tutt’uno, con quella per “la casa come servizio sociale” e quella per il “diritto alla città”. Oggi ci proponiamo di allargare l’attenzione e l‘obiettivo dalla conquista (dalla difesa) delle attrezzature e dei servizi di prossimità all’intera gamma di esigenze dell’uomo che vive su territori più ampi: la ricreazione psico-fisica nei grandi spazi naturali dei monti, delle colline e delle coste, il godimento dei grandi patrimoni archeologici, storici e culturali disseminati sui territori, le attrezzature utilizzabili solo in una dimensione di area vasta. A questi temi dedicheremo la quinta edizione della Scuola di eddyburg, che terremo ad Asolo dal 9 al 12 settembre prossimi.

Gli spazi pubblici sono a rischio. Abbiamo accennato più sopra ai rischi principali. Essi hanno la loro matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo; un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E hanno la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove.

Ma sono concretamente a rischio per mille concrete iniziative di governo. Indichiamone due (ma si tratta, ahimè, di un elenco aperto). Le recente iniziative del ministro degli interni di vietare le manifestazioni religiose (ma latu sensu tutte le manifestazioni) nei luoghi pubblici in prossimità dei luoghi di culto: ma dove c’è, in Italia, una piazza che non sia vicina a una chiesa? E il perverso intreccio tra lo strangolamento finanziario dei comuni e l’arrendevolezza di questi ultimi, che li spinge a svendere gli spazi pubblici, o a commercializzarli, per ottenere il danaro con cui sopravvivere (vivendi perdendo causam).

A questi rischi occorre opporsi. E in mille luoghi d’Italia ci si oppone, con l’iniziativa di comitati, associazioni, gruppi di cittadini e di abitanti che si mobilitano a difesa del loro territorio, delle loro città, dei loro quartieri. Pochi giorni fa, a Cassinetta di Lugagnano, dove si è reso pubblico un appello dal titolo “Stop al consumo di suolo” si è potuto verificare come attorno a questo tema si annodino le mille vertenza aperte in ogni parte d’Italia per ottenere città che non crescano più sotto il dominio della speculazione immobiliare, ma siano città resi vivibili dalla quantità e qualità degli spazi pubblici, e dalla sua organizzazione d’insieme come unitario bene comune; tremila gruppi, comitati, associazioni hanno comunicato la loro adesione alla manifestazione. Ci proponiamo di coinvolgerli in una iniziativa che da qualche tempo, in collaborazione con altre associazioni, abbiamo avviato: un progetto per la costruzione di una mappa degli spazi pubblici e, parallelamente ad essa, di una mappa degli spazi a rischio e dei conflitti per la loro difesa, o riconquista, o conquista.

Il ruolo del commercio

Un ragionamento particolare merita il ruolo del commercio nella vita della città. La vitalità dei suoi spazi pubblici ha avuto storicamente un apporto decisivo dalla presenza del commercio: più precisamente, dal commercio legato alle esigenze quotidiane della vita degli abitanti di quel quartiere o di quel settore urbano. Le piazze sono state luoghi di incontro, di convivenza, di confronto e scambio anche per la presenza dei negozi d’uso comune e corrente. E le gerarchie tra i diversi spazi pubblici (e le diverse zone della città) era legata anche alle gerarchie tra le merci offerte: quelle più rare e più pregiate caratterizzavano le parti più importanti della città.

A un certo momento tutto ciò è cambiato. Da un lato, il consumo ha perso sempre più il contatto con le esigenze reali delle persone ed è diventato consumo artificioso, consumo del superfluo, consumo opulento, indotto non dal bisogno dell’uomo ma da un apparato che ne ha fatto una variabile dipendente della produzione. Dall’altro lato, grazie alle tecniche della distribuzione di massa, finalizzate a smerciare una quantità sempre più ampia di prodotti, si è riusciti a praticare prezzi fortemente competitivi non solo per le merci dell’opulenza, ma anche per quelle della vita quotidiana.

Così, prima i grandi supermercati e ipermercati, poi gli outlet, i mall, i grandi centri commerciali si sono localizzati in aree sempre più periferiche e hanno aspirato dalla città grandissima parte della vendita dei beni d’uso quotidiano: hanno provocato la morte del piccolo commercio (del fornaio e del droghiere, del salumaio e del fruttivendolo e, analogamente, dello stagnino e dell’elettricista, del ciabattino e del falegname). A questo processo un altro si è accompagnato. La spinta al consumo opulento ha fatto sì che i locali del commercio tradizionale si riempissero di una serie di altri commerci: non più legati alle necessità quotidiane degli abitanti, ma provocati da una strategia tendente a moltiplicare all’infinito lo smercio di quei prodotti, uguali in tutto il mondo, che caratterizzano il consumo opulento.

A questo complesso di problemi si riferivano recentemente sia Paolo Berdini sul manifesto che Renato Nicolini su Repubblica: entrambi il 23 gennaio, entrambi ripresi su eddyburg. Berdini osservava come a Roma i negozi di vicinato stiano “chiudendo uno dopo l’altro, perché la concezione liberista della città ha consentito che aprissero in otto anni ventotto giganteschi centri commerciali, oltre i quattro che già esistevano” e ricorda che “stime prudenti parlano della chiusura a breve termine di oltre tremila negozi di vicinato: ecco i motivi del deserto urbano” che genera, o favorisce, violenza e sopraffazione. E Nicolini, dopo aver constatato che “lo spazio pubblico, lo spazio di tutti, della polis, dei valori condivisi e della politica, sembra essersi improvvisamente ristretto”, domanda: “perché non reintrodurre almeno – partendo da zone come Campo de’ Fiori – il controllo delle destinazioni d’uso sostenibili? Qualcosa di analogo ai vecchi piani del commercio, che Rutelli abolì negli anni Novanta, senza pensare di aprire la strada alla trasformazione del centro in uno shopping mall a cielo aperto, con bar e ristoranti”.

Il fatto è che l’urbanistica (quella largamente praticata dalla maggioranza dei professionisti e insegnata nella maggioranza delle università) ha tralasciato di cercare e praticare le connessioni tra l’obiettivo sociale e le possibilità della pianificazione. E al tempo stesso ha trascurato di criticare il modo nuovo in cui il pensiero dominante affrontava quelle connessioni. Abbandonare il commercio (e l’insieme del futuro della città) alla forza apparentemente cieca e neutrale del “Mercato” provoca proprio ciò che è ogni giorno sotto i nostri occhi: l’abbandono delle piazze delle città (là dove esistono) da parte delle attività vitali e la concentrazione del commercio in quegli scatoloni, o quelle finte città (quelle scimmie di città) che il “Mercato”, dominato dalle multinazionali, erige, celebrando la riduzione del cittadino a consumatore e l’apoteosi della società opulenta (in quell’universo sempre più ristretto che si chiama Nord del mondo).

Ha ragione Nicolini: bisogna afferrare di nuovo gli strumenti dell’urbanistica. Il primo si chiama: governare le trasformazioni – ogni trasformazione – in vista di obiettivi sociali espliciti, nella consapevolezze che le trasformazioni della città agiscono su quelli della società. Il controllo delle utilizzazioni degli spazi è uno strumento essenziale per raggiungere un obiettivo sociale; e chi, avendo il potere e il sapere per adoperarlo dichiara l’impossibilità di farlo, di fatto lascia che siano i padroni del mercato, utilizzando gli ascari di una politica ridotta ad ancella dell’economia data, a decidere come le città e i territori si trasformano.

Il lavoro e il territorio, due vittime del neoliberalismo

Autore: Oscar Mancini Data di pubblicazione: 15.09.2008
Relazione al seminario internazionale “Quale futuro scegliamo: la metropoli neoliberista o una città comune e solidale?”, European Social Forum, Malmö, 19 settembre 2008[1]

 

La città come bene comune

Autore: Edoardo Salzano Data di pubblicazione: 11.09.2008

Relazione al seminario internazionale “Quale futuro scegliamo: la metropoli neoliberista o una città comune e solidale?”, European Social Forum, Malmoe, Svezia, 19 settembre 2008 [2]

 

…… Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni [il mercato, il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino]. Nelle piazze i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un giudizio, un allarme, una festa.

Dove la città era grande e importante, invece di un’unica piazza c’era un sistema di piazze: più piazze vicine, collegate dal disegno urbano, ciascuna dedicata a una specifica funzione: la piazza del mercato, la piazza dei signori, la piazza del duomo. Dove la città era organizzata in quartieri ogni quartiere aveva la sua piazza, ma erano tutti satelliti della piazza più grande, della piazza cittadine. Le piazze e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze era inconcepibile come un corpo umano senza scheletro.

Nei secoli appena passati sono accaduti eventi che hanno indebolito il carattere collettivo della città. Hanno prevalso concezioni dell’uomo, dell’economia, della società che hanno condotto al primato dell’individuo sulla comunità. Il suolo su cui la città era fondata era considerato patrimonio della collettività in molte regioni europee; nel XIXesimo secolo, con il trionfo della borghesia capitalistica, è stato privatizzato. La speculazione sui terreni urbani ha portato a costruire sempre più edifici da vendere come abitazioni o come uffici, invece che servizi per tutta la cittadinanza, e a destinare sempre meno spazi agli usi collettivi. Devastante è stata l’espansione della motorizzazione privata nelle aree densamente popolate, dove sarebbe stato molto preferibile adoperare mezzi di trasporto collettivi. Le automobili hanno cacciato i cittadini dalle piazze e dai marciapiedi.

Il bisogno dei cittadini di disporre di spazi comuni è stato utilizzato per aumentare il consumo di merci. Le aziende produttrici di merci sempre più opulente e meno utili hanno costruito degli spazi comuni artificiali: dei mall o degli outlet centers o altre forme di creazione di spazi chiusi: piazze e mercati finti, privatamente gestiti, frequentati da moltitudini di persone che, più che cittadini [quindi persone consapevoli della loro dignità e dei loro diritti] sono considerati clienti [quindi persone dotate di un buon portafoglio].

Negli ultimi anni in molte città europee i fenomeni di degrado degli spazi comuni sono stati contrastati realizzando ampie zone pedonali, limitando il traffico automobilistico nelle città, sviluppando il trasporto collettivo, le piste ciclabili, i percorsi pedonali. Dove ciò non è accaduto la vita è diventata molto difficile soprattutto per bambini e anziani.

In tutte le città d’Europa sono nati movimenti e comitati che rivendicano una maggiore quantità e qualità di spazi comuni per rendere la città vivibile. Anche negli Stati uniti si sono manifestate tendenze culturali e sociali per contrastare le conseguenze degli eccessi dell’individualismo. Da questo insieme di esperienze nascono proposte interessanti sui requisiti che devono caratterizzare spazi pubblici vivibili. La progettazione architettonica e urbanistica sono necessarie per realizzare dei buoni spazi pubblici, piacevoli e utili. Ma la città e i suoi spazi non sono fatti solo di pietre e altri materiali inanimati: sono fatti soprattutto dalle relazioni che si stabiliscono tra le persone e gli spazi.

Ho la fortuna di abitare in una città in cui gli spazi pubblici si sono conservati come erano secoli fa. Si sono conservati nelle loro forme, le loro architetture, e si sono conservati nel rapporto che lega spazi e persone. Sto parlando di Venezia e dei suoi campi: così si chiamano le piazze, e il nome ricorda quando erano spazi aperti, coperti d’erba e magari coltivati. Osservando questi campi si può notare: la varietà e l’armonia delle diverse dimensioni e forme degli edifici che racchiudono l’articolato spazio aperto; la dimensione degli spazi, appropriata alla scala dell’uomo e alle opportunità di incontri tra diversi gruppi di persone; l’integrazione tra funzioni private [le abitazioni che affacciano sul campo] e funzioni comuni [la chiesa, il palazzo con la scuola o l’ufficio, la bottega e il laboratorio artigiano]; l’assenza di elementi di disturbo dei rapporti tra le persone, come automobili o altri elementi ingombranti; la presenza di piccole utilità, come l’acqua della fontanella e del pozzo, e di elementi di architettura [gradini, muretti e balaustre, panche di pietra] utili per appoggiarsi o sedersi; l’apertura, sui bordi del campo, di numerosi piccoli passaggi coperti “sottoporteghi” dai quali le persone entrano nel campo o ne escono verso le loro case o gli altri luoghi e percorsi comuni, senza che mai il campo appaia come un incrocio di vie attraversate da un traffico noioso; l’animazione sociale costituita dalla presenza contemporanea di persone appartenenti a ceti, mestieri, età, condizioni personali diversi.

Venezia è una città molto antica che nell’ultimo secolo è stata abbandonata dalla popolazione e ha cominciato a rinascere negli ultimi decenni. Un evento che contribuì alla sua riscoperta è stata la Festa nazionale dell’Unità del 1973. In genere si organizzava in grandi spazi alla periferia delle grandi città.

Quell’anno si decise di organizzarla a Venezia, nei suoi campi. Almeno 15-20 campi furono coinvolti nell’evento. In ciascuno si svolgevano spettacoli di musica, di teatro, di giocolieri, dibattiti, in ognuno c’era ila cucina all’aperto con le pietanze d’una città italiana o di un paese ospite. La città per una settimana cambiò faccia. Tutti riscoprirono la bellezza degli spazi occupati dalle persone, dai loro incontri, diventati vivi come non mai. Da allora, abitanti e turisti abitano ogni giorno i campi: sono il soggiorno all’aperto di tutte le case della città, il luogo dove si incontrano gli amici e si conoscono persone nuove.

Un episodio molto significativo dell’importanza degli spazi pubblici per ristabilire il rapporto tra la società e la città è avvenuto a Roma a partire dal 1976. Roma allora aveva oltre due milioni di abitanti. Un centro storico molto bello e famoso, estesissime periferie sempre più povere e degradate. Il centro era occupato dai ricchi e dai turisti, le periferie dai ceti più poveri. Gli slum delle periferie più lontane erano diventati luoghi dove cresceva la delinquenza, gruppi di giovani erravano senza avere alternative ai giochi di prepotenza e sopraffazione. Erano anni nei quali l’Italia era ancora percorsa dal terrorismo, gli “anni di piombo” di quella società. Un intelligente sindaco, Giulio Carlo Argan, e un geniale giovane assessore, Renato Nicolini, cambiarono il clima sociale della città modificando il rapporto tra abitanti e spazi. Le attività culturali furono tirate fuori dalle ristrette sale dei teatri, dei concerti e dei musei. Grandi manifestazioni di massa [maratone cinematografiche di film popolari, teatro e “teatro di strada”, musica di tutti i generi, danze e altre manifestazioni] furono organizzati nei luoghi centrali della città. I giovani la sera e i giorni di festa abbandonavano i loro slum e accorrevano nel centro della città, nelle sue piazze e nei luoghi famosi dell’archeologia. Le famiglie portavono le loro cene negli spazi dove si proiettavano all’aperto i film più amati e gli spettacoli più popolari.

Questi due esempi indicano alcune possibilità di ricostruire un ruolo comune degli spazi pubblici. In Europa si può far leva sul patrimonio della storia rappresentato dalle città antiche e dai loro spazi. In altre parti del mondo, come in Africa, si può e si deve far leva su altri valori. Ad esempio, sulla presenza di una tradizione ancora viva di vita e di interessi comuni: le famiglie e le aggregazioni di famiglie, i villaggi, le lingue e i dialetti, le abitudini dei diversi gruppi sociali testimoniano la vitalità di valori comuni. Ad esempio, sulla mancanza di una concezione della terra come un bene che possa essere privatizzato, frammentato, sottratto all’uso comune. Partire dagli interessi comuni delle piccole comunità locali , arricchire la loro vita di spazi comuni ben funzionanti e attraenti è un buon punto di partenza. Perciò il progetto di Toi Market mi sembra interessante: l’obiettivo deve essere impadronirsi di tutta la città. Ogni comunità, ogni villaggio, ogni quartiere è una parte di un organismo più vasto: la città.

A partire dagli spazi pubblici, occorre porsi l’obiettivo di rendere davvero comune la città nel suo insieme: renderla finalmente la casa di una società dove le diverse parti [distinte per lingua, origine, tradizione, etnia, condizione sociale, religione] si rispettino e comprendano che ciascuna di esse è una ricchezza per ciascuna delle altre, e nel loro insieme costituiscano una ricchezza che è maggiore della somma delle singole ricchezze.

tratto da “La città come bene comune” intervento di Edoardo Salzano preparato per un seminario promosso a Nairobi il 22 gennaio 2007 sul tema “La città come bene comune. Quale futuro per i quartieri informali?”. L’iniziativa è stata organizzata per presentare un progetto di rigenerazione di una struttura collettiva informale, Toi Market, nello slum di Kibera, gestito dalle comunità locali con l’apporto di Zone onlus e Pamoja Trust, una ong locale che dal 2000 è attiva per fermare gli sfratti e dare supporto tecnico e legale alle comunità degli slum.

 


Si parla spesso, in questo sito, di “città come bene comune”. Su questo tema abbiamo promosso un appello, sottoscritto non solo da urbanisti ma anche da sociologi, economisti, archeologi, scrittori, artisti, musicologi, architetti, giornalisti…”La città come bene comune” sarà al centro di un seminario e un workshop che eddyburg, con numerose altre associazioni e gruppi italiani ed europei, sta organizzando all’ European Social Forum di quest’anno.

Ma che cosa intendiamo con questa espressione? È utile fornire qualche precisazione. I frequentatori di eddyburg sanno che per noi le parole sono molto importanti. Le parole sono le pietre con le quali si costruiscono i discorsi, le ideologie, le opinioni correnti. Con le parole si possono generare movimenti, azioni, politiche; si possono determinare credenze e comportamenti, valutazioni, esclusioni e inclusioni.

Affermare che la città è un bene comune significa in primo luogo riconoscere che essa è un bene, non una merce; qualcosa che vale di per sè, non in quanto può essere scambiato con altri beni o con la moneta. Comune, quindi non individuale: un insieme di elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme. Il nocciolo della definizione sta nel processo stesso di formazione (di invenzione) della città: nel suo essere nata in funzione del soddisfacimento di esigenze che i singoli individui, famiglie, tribù non erano in grado di soddisfare senza unirsi, collaborare, condividere. E infatti la città, nei suoi più alti momenti fondativi, si organizza e diventa forma compiuta attorno ai luoghi delle attività e delle funzioni comuni. La piazza, il luogo dello scambio e del rito, dell’incontro e della rappresentazione,della concentrazione degli edifici e dei servizi pubblici, è l’essenza e il simbolo della città. Da qui, dalla storia stessa della città, il ruolo determinante degli spazi pubblici, della loro fruizione aperta, della loro appartenenza pubblica, della loro gestione condivisa. Lo si comprese lungo quel percorso culturale, sociale e politico che condusse agli “standard urbanistici”. E da qui, dalla perdita di un simile ruolo, dalla negazione e dalla privatizzazione degli spazi pubblici, la testimonianza e, al tempo stesso, una causa rilevante della crisi della città e della società.

Negli stessi anni in cui si raggiunse l’obiettivo degli standard urbanistici si inventò un’espressione nuova per un’altra rivendicazione sociale, che si apparenta a quella per gli spazi pubblici: la casa come servizio sociale. Con questa espressione non si affermava che si dovesse provvedere a soddisfare gratuitamente, o a un prezzo “politico”, alla casa per tutti, ma che il soddisfacimento dell’esigenza di un’abitazione inserita in un complesso di opportunità e servizi urbani era un diritto per ogni cittadino, qualunque fosse il suo reddito, e che toccava al governo pubblico provvedervi, sia regolando il mercato privato sia impegnandosi in provvedimenti specifici per chi ne avesse maggior bisogno. Quella rivendicazione (è il caso di ricordarlo) gradualmente condusse a una politica della casa molto articolata, che partiva da una consistente riduzione del peso della rendita fondiaria sul costo degli alloggi, alla programmazione dell’intervento pubblico di sostegno all’edilizia a particolari condizioni d’accesso, alla regolazione infine del prezzi nello stesso mercato privato.

Affermare che la città è un bene comune significa quindi riallacciarsi a questi due temi: la centralità degli spazi pubblici e il carattere sociale della residenza. E significa anche collegarsi a un altro rilevante principio, presente da tempo nella letteratura mondiale: il diritto alla città. Se quest’ultima espressione si riferisce principalmente ai soggetti – ai cittadini – si può dire che la città come bene comune rappresenta lo stesso concetto dal punto di vista dell’oggetto – la città – che al soddisfacimento di quel diritto è ordinato. Pensare e organizzare la città come bene comune è un modo (l’unico modo) di garantire a tutti il diritto alla città.

È facile comprendere quanto oggi i principi espressi da quei termini siano minacciati. Lo si coglie dalle parole stesse che sono divenute di moda nel parlare delle città, e nelle pratiche che a quelle parole fanno seguito. Si rifletta alla parola competizione, che sembra dover costituire il perno delle politiche urbane di questi anni. Ogni città deve competere con tutte le altre, deve accrescere le sue “qualità” e le sue “prestazioni” non per accrescere il benessere dei suoi cittadini ma per attirare meglio delle altre i suoi acquirenti: gli investitori, i turisti, i finanziatori di eventi. La povertà non va sconfitta nelle sue cause, va nascosta per tenere alto il “decoro” della città. È, insomma, la città che diventa merce, che si offre sul mercato gareggiando con le altre per sconfiggere la concorrenza. Avete mai riflettuto che dei due significati di questo termine, “correre insieme” e “correre l’uno contro l’altro”. ha nettamente prevalso il secondo? E lo si coglie nei fatti. Ma di questi ci siamo occupati a lungo nei precedenti eddytoriali, e nell’articolo scritto in questi giorni per la rivista Left, ad essi rinviamo i lettori.
Eddytoriale 117 (23 agosto 2008) Data di pubblicazione: 23.08.2008

 

Spazio pubblico? Distrutto

Stanno distruggendo tutto. Dai valori fondanti del nostro Stato al ruolo del lavoro, dai bilanci delle famiglie alla solidarietà. Operano modificando il modo in cui le persone pensano, giudicano, valutano, scelgono, e le abitudine quotidiane, ciò che si compra, si mangia, si indossa, si guarda. Non ci sarebbe nulla di male, se distruggessero ciò che non serve più. Invece no. Stanno distruggendo tutto quello che conta, tutto quello che è stato costruito in un faticoso processo di sviluppo: quello vero, quello che migliora le persone e il loro modo di vivere con gli altri, di essere e di sentirsi uguali e ugualmente degni di rispetto, non quello consistente nel’aumento della produzione di merci utili, inutili o dannose.

Stiamo parlando dei nuovi barbari, quelli che sono rappresentati e conquistati da Silvio Berlusconi. Ma in realtà dovremmo parlare, più che di Berlusconi, del “berlusconismo”: quella ideologia che pervade larghissimo parte dello schieramento politico, che nacque con le “modernizzazioni” di Bettino Craxi e con l’insofferenza delle regole comuni, che ha la sua cornice mondiale in ciò che Oltralpe e Oltreoceano si chiama “neoliberalismo”. È un’ideologia che ha il suo centro nella affermazione più piena, sfrenata, “libera” dell’individuo, il cui metro di misura è costituito unicamente dalla ricchezza e dal potere che è in grado di accumulare, quali che siano i mezzi impiegati. L’unico strumento valido per misurare le cose (tutte le cose, dalle merci ai sentimenti) è il mercato; l’unica dimensione della vita sociale che conti è quella economica (e dell’economia data, dell’economia capitalistico-borghese).

Molti hanno compreso e denunciano numerosi aspetti di questa ideologia, e delle pratiche sociali che ne conseguono: nella sinistra “radicale”, nei gruppi intellettuali e sociali che criticano la globalizzazione neoliberista, in parti consistenti del mondo dell’ambientalismo e di quello cattolico. Molto scarsa è invece la consapevolezza del danno enorme che i barbari stanno apportando nel campo dell’organizzazione dell’habitat dell’uomo: nella città e nel territorio.

Qui, nella città e nel territorio la devastazione che sta avvenendo è immane. E che il grosso dell’opinione pubblica (a partire dai politici) non se ne accorga rende il danno ancora più preoccupante. Riflettiamo su alcuni aspetti di ciò che sta avvenendo.

Gli spazi pubblici

Gli spazi e gli edifici destinati alla vita e alle funzioni sociali (dalle piazze alle scuole, dai parchi agli ospedali) sono spazi pubblici per definizione, e aperti alla pubblica fruizione: tali sono stati da quando la città esiste (la nostra città, la città europea, la città come luogo del municipio e della libertà, dell’autogoverno e della cittadinanza). Il loro peso nella città è cresciuto, nella storia, man mano che si sono sviluppate le funzioni legate alla solidarietà, alla diffusione della cultura, alla cura della salute, agli impieghi del tempo libero. Sono stati una componente di rilevo del welfare state. In Italia la loro conquista è stato il risultato di una lunga lotta del movimento delle donne, del sindacato dei lavoratori, della cultura progressista, dei partiti della sinistra. Si era ottenuto che nei piani urbanistici venissero riservati a queste necessità aree di dimensioni adeguate, da acquisire alla proprietà pubblica e alla pubblica gestione (gli standard urbanistici, con una legge del 1967). Si era ottenuto poi che ogni intervento edilizio dovesse destinare una quota del maggior valore ottenuto dai proprietari alla realizzazione delle previsioni pubbliche dei piani (gli oneri di urbanizzazione, con una legge del 1977).

Oggi è in marcia la loro demolizione, adoperando tre strumenti. (1) La riduzione delle risorse destinate alla loro acquisizione, realizzazione, gestione: quegli “oneri di urbanizzazione” che erano destinati a ciò sono utilizzati dai comuni per coprire i loro deficit di bilancio, per pagare stipendi e altre spese correnti. (2) La progressiva privatizzazione degli spazi pubblici: il percorso era stato avviato trasformando le piazze in parcheggi, prosegue oggi sollecitando i comuni a “valorizzare” le proprietà pubbliche (venderle o trasformarle in utilizzazioni commerciali), e proponendo di utilizzare le aree vincolate a spazi pubblici per realizzarvi edilizia residenziale solo provvisoriamente “sociale”, poi utilizzabile dagli immobiliaristi più o meno “furbetti”. (3) l’abolizione dell’obbligo di rispettare gli standard urbanistici, prevista da una legge bloccata in extremis nella scorsa legislatura e ripresentata in quella attuale, ma già anticipata in alcune regioni.

Il diritto alla casa a un prezzo equo

La rivendicazione popolare della “casa come servizio sociale” era stata tradotta, negli anni Settanta, in una strategia che prevedeva la programmazione decennale dell’intervento pubblico nel settore (con l’edilizia pubblica per i ceti meno abbienti e quella privata convenzionata e agevolata, l’una e l’altra su aree parzialmente depurate degli incrementi della rendita fondiaria) e il controllo dei prezzi del mercato edilizio esterno all’area dell’intervento pubblico (l’equo canone), Tutto ciò è stato smantellato. Non solo: fedeli al principio di utilizzare anche la povertà per arricchire i già ricchi, prevedono di finanziare interventi immobiliari privati, agevolati dal contributo pubblico, con il solo vincolo di affittare le case a prezzi contenuti ai meno abbienti.

Tutto ciò costituisce la sostanza della politica aggressiva della destra al potere. Ma è stato avviato per più d’un aspetto nella politica del centrosinistra, ogni volta che si è dimenticato che il mercato, se è utile per misurare il valore delle merci, non serve né a comprendere né a governare qualcosa che merce non è: come la città e il territorio. La speranza di arrestare la privatizzazione dell’habitat dell’uomo è affidata soprattutto alla resistenza di chi ha compreso ciò che sta accadendo, e sa unirsi agli altri per difendere ciò che fa della città un bene comune: a partire dagli spazi pubblici.

Articolo di apertura di LEFT Avvenimenti, n. 34 del 22 agosto 2008

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