La città creativa

23 marzo 2014
DOC

L’urbanista Charles Landry su “Arte del fare città”.Intervista di Vecchi Benedetto, il manifesto, 11 novembre 2009

Le metropoli come un regno di una creatività sociale che attende solo di essere utilizzata per migliorare le condizione di vita. È questa la proposta che lo studioso Charles Landry ha maturato in anni di esperienze nella progettazione urbanistica che lo hanno portato a lavorare non solo nella Nativa Inghilterra, ma anche negli Stati Uniti, Italia, Russia e Cina. L’uso di una categoria aperta a molteplici interpretazioni come quella della creatività non lo ha portato a una visione apologetica del «fare città» dominante. Anzi, la sua riflessione nasce dalla consapevolezza di una doppia crisi. Da una parte la difficoltà, meglio l’impossibilità per urbanisti e amministrazioni politiche di presentare progetti organici dello sviluppo metropolitano. Dall’altra, però, la consapevolezza che la gestione neoliberista delle metropoli più che risolvere i conflitti e il degrado metropolitani ha accentuato una privatizzazione dello spazio pubblico, fattore propedeutico a una feroce valorizzazione capitalistica del territorio.

Per Landry più che un ritorno ai fasti del Moderno da contrapporre al governo neoliberista delle metropoli occorre tuttavia puntare proprio a quella creatività diffusa che si manifesta nelle reti sociali, il vero, per usare le sue parole, software delle metropoli, cioè quell’elemento che rende possibile il funzionamento della città. Una tesi che accosta la sua riflessione a quella di un altro studioso, Richard Florida, che ha individuato nella creatività la linfa vitale a cui la produzione capitalistica deve attingere per garantire lo sviluppo economico. Ma con una sostanziale differenza. landry è interessato all’«Arte di fare la città», come recita il libro da poco pubblicato da Codice edizione. Dunque, non un’analisi della metropoli come atelier produttivo, bensì come habitat che consente una «buona vita» che sappia superare le miserie del presente per aprirsi a un futuro eco-compatibile. E non è dunque un caso che le sue tesi abbiano incontrato l’interesse della Banca mondiale, ma anche di movimenti ambientalisti, di architetti e urbanisti liberal. L’intervista è avvenuta durante la sua presenza al Festival della Scienza di Genova, dove è stato chiamato a parlare del presente e del futuro delle metropoli.

Nel suo libro da poco tradotto, le città sono un crogiolo di stili di vita, di interessi confliggenti. Dunque, le metropoli come artefatti culturali?

Artefatti culturali è una buona approssimazione rispetto alla ricerca che ha caratterizzato il mio lavoro sul «fare la città». Questo però non significa che non esistano elementi «naturali», morfologici che spiegano il perché di alcune scelte di sviluppo urbanistico piuttosto che altre.

Decidere la costruzione di un centro commerciale, di una superstrada o di rendere alcune piazze strada zone off limits alle automobili dipende ovviamente dalla morfologia territoriale in cui è collocata la città. E tuttavia una città è l’esito di una negoziazione tra gli interessi sociali, economici e degli stili di vivere diversi e spesso confliggenti che in quella città si esprimono. La metropoli è sempre uno spazio pubblico popolato da formazioni sociali, classi e ceti tra loro eterogenei. Prendiamo il continuum urbanistico che va da La Spezia e Imperia. Molti, e io concordo con loro, hanno parlato di un’unica metropoli, dove, però, si manifestano interessi specifici, locali che condizionano il lavoro degli architetti, degli urbanisti e dei decisori politici. Ci troviamo di fronte a siti urbanistici che hanno una lunga storia alle spalle, ma arrivano a fondersi senza per questo voler rinunciare, ognuno, alla sua specificità. Tutto cioè rende il governo del territorio un lavoro di negoziazione continua, di modifica incessante dei progetti urbanistici che annulla qualsiasi possibilità di un progetto organico di sviluppo urbanistico. Una negoziazione continua che non riguarda solo il territorio che va da La Spezia a Imperia, ma tutte le metropoli e che viene gestita da forme più o meno efficaci di governance. Per questo, il «fare città» contemporaneo è segnato dalla crisi del progetto moderno che pretendeva di orientare con coerenza lo sviluppo urbano. Faccio la mobilità.

Nel passato le città mettevano in contatto le persone, favorendo la crescita di relazioni sociali tra uomini e donne nati in contesti locali lontani o isolati l’uno con l’altro. La mobilità, meglio la possibilità di muoversi agilmente all’interno di uno spazio urbano è stato uno degli elementi costituitivi dello sviluppo urbano. Negli ultimi trent’anni invece questo diritto alla mobilità è stato messo in crisi da molti fattori. Per garantire questo diritto, i policy making hanno pensato che occorreva solo trovare delle soluzione tecniche. Si sono costruite superstrade, si sono demoliti interi quartieri, in una negoziazione continua tra gruppi, classi sociali diversi, che rendevano il progetto iniziale solo un decalogo di buone intenzioni. Ma in una metropoli c’è sempre asimmetria di potere. Alla fine vinceva chi aveva più potere, anche se le decisioni finali venivano presentate come soluzioni tecniche.

Con questo vuol sostenere che la valorizzazione economica dello spazio è diventato l’unico parametro che oriente le scelte delle amministrazioni politiche?

La risposta non può essere netta, perché chi punta a una valorizzazione economica dello spazio urbano incontra sempre resistenza da parte degli abitanti. Ho avuto il piacere di studiare e vivere per un periodo di tempo a Bologna, rimanendo affascinato dalla geometrica armonia della parte storica della città. La Bologna antica rifletteva un progetto di città che emergeva con facilità dall’organizzazione urbanistica dello spazio. Se però ci spostiamo nella parte nuova della città è difficile trovare traccia di un progetto urbanistico coerente. Non sono un nostalgico e non propongo certo di ritornare a quel modo antico, medievale di «fare città», ma sono propenso a a sostenere che è difficile un’idea di metropoli per il ventunesimo secolo. Leggendo il suo libro, ho trovato molti echi della riflessione di Georg Simmel sullo spirito della metropoli o delle pagine di Walter Benjamin sulla «Parigi capitale del ventesimo secolo». Ma nella sua riflessione sull’«arte di fare la città» le forme di vita contemporanee sono un apriori immutabile nel tempo… Non ho studiato approfonditamente Walter Benjamin, mentre conosco bene l’opera di Simmel e concordo con la sua tesi sul fatto che nelle metropoli si manifestano eterogenei gli stili di vita.

D’altronde, l’arcano del «fare città» consiste proprio nel trovare soluzioni su come organizzare uno spazio affinché si possono manifestare e al tempo stesso trasformare le relazioni sociali di una società. In una città è «naturale» demolire edifici, strade, piazze per costruirne altri. Finora gli urbanisti hanno ritenuto che il loro lavora finiva quando era stata trovata una soluzione appunto urbanistica. Ma una metropoli riflette forme di vita e, allo stesso tempo, favorisce la loro trasformazione. Il problema è come avviene questa trasformazione. Prendiamo, ad esempio, la città interculturale, concetto molto usato in anni recenti dagli urbanisti, architetti e policy making. Trovo il concetto interessante per un motivo che trascende dall’idea che nelle città contemporanee sono presenti «stranieri». Come dicevo prima, le città sono da sempre il luogo dove gli stranieri possono incontrarsi. La città interculturale deve però dare una risposta a un rovello logico: posso anche accettare le differenze, ma cosa accade se io sono diverso da quanto stabilito come codice culturale e norme dominanti? È questa la sfida del ventunesimo secolo. Purtroppo, quando si discute di metropoli lo si fa sempre e solamente da un punto di vista amministrativo per rispondere a difficoltà tecniche: qual è il percorso migliore per spostarsi da A a B, quale soluzione ottimale per costruire un grattacielo. Gli urbanisti, gli architetti e i policy making sono cioè interessati a migliorare l’hardware della città, ma non al software che la fa funzionare, crescere, trasformare. I luoghi diventano cioè dei vincoli dotati di una sacralità oggettiva che non si può infrangere, mentre gli uomini e le donne che vivono la città sono degli accessori.

Nei suoi testi le metropoli sono luoghi in cui si manifesta una creatività diffusa, che consente sia di innovare che migliorare le proprie condizioni di vita indipendentemente da quanto viene deciso politicamente. Gli uomini e le donne possono dunque autogovernarsi?

La «città creativa» è un concetto maturato negli anni Ottanta, quando molte metropoli sono state interessate da profonde trasformazioni urbanistiche. Ciò che emergeva era una sorta di capacità progettuale diffusa che prospettava soluzioni creative, cioè innovative del vivere metropolitano. Mi riferisco a città come Barcellona, Glasgow, Cracovia, Manchester. Venivo chiamato come consulente per prospettare soluzioni «creative» a seri problemi sociali, economici e ambientali. Ponevo sempre l’accento sulla necessità di una maggiore comprensione e conoscenza di quanto accadeva nei quartieri interessati dai progetti di qualificazione urbana, invitando a valorizzare la capacità degli abitanti a prospettare soluzioni ai loro problemi. Gli urbanisti o i decisori politici mi guardavano allibiti come se fossi un romantico utopista. Era molto frustrante, ma poi è accaduto che alcuni amministratori hanno accettato la sfida, definendo percorsi che prevedevano, nella progettazione urbanistica, il coinvolgimento di chi la città la abita. Abbiamo così scoperto che la creatività non è una prerogativa individuale, ma l’esito di dinamiche sociali molto dense, ricche. La metropoli non è solo un luogo in cui si consuma una vita segnata da insicurezza, fragilità, sofferenza, ma anche un contesto che può valorizzare le capacità collettiva di immaginarla come una realtà «amica».

Non può però negare che le metropoli siano anche luoghi di emarginazione, di diseguaglianze, di razzismo istituzionalizzato, di sfruttamento?

Le metropoli sono anche questo. Per affrontare e risolvere i problemi da lei indicati occorrono soluzioni radicali, ma soprattutto creative. L’idea di città creativa che ho elaborato risponde appunto alla capacità di favorire la partecipazione, come dite voi in Italia, popolare. Per fare questo, però, va ridefinito il rapporto tra governanti e governati, considerando quest’ultimi non accessori, ma una risorsa indispensabile per migliorare la vita nelle città. La «città creativa» è però solo una scintilla, ma poi la prateria può bruciare secondo dinamiche inizialmente non prevedibili. Le cito un esempio che conosco bene. La Ruhr è una delle regioni tedesche più inquinate. Quando il governo locale ha deciso di riqualificare città e siti industriali si è posto il problema dell’uso di energie rinnovabili e non inquinanti. Ma per fare questo doveva coinvolgere gli abitanti, in particolare modo i comitati ambientalisti che denunciavano il livello intollerante del degrado ambientale. A anni dal lancio del programma si riqualificazione della Ruhr molte cose rimangono da fare, ma quel progetto è considerato una sorta di modello che ha avuto successo. L’architetto prospetta infatti soluzioni bio-compatibili; gli urbanisti si pongono il problema di come dotare le città, i quartieri di parchi pubblici e di come favorire la mobilità utilizzando ad esempio il trasporto collettivo. È di questo incendio che parlo quando sostengo che la città creativa è solo una scintilla. Una proposta dolcemente in controtendenza con la logica neoliberista dello sviluppo metropolitano….

Negli Stati Uniti, ma non solo, la critica alla privatizzazione degli spazi pubblici ha dato vita a una vivace e importante discussione. Nonostante il fatto che il neoliberismo sembrasse l’unico orizzonte in cui collocare scelte politiche rispetto allo sviluppo urbanistico possiamo dire che ha subito una sconfitta sul campo. Questo non significa che non ci siano più metropoli gestite secondo quella logica. Più realisticamente il neoliberismo non ha mantenuto le sue promesse – sicurezza, maggiore benessere, riduzione dell’inquinamento. Inoltre, la mia esperienza mi ha portato a scoprire una grande competenza, passione, capacità tra i dipendenti pubblici nel poter prospettare buone soluzioni per le metropoli che amministrano. Occorre dunque recuperare questa bacino di conoscenza rimasto per anni silente. Infine, va rilegittimata, dopo anni di denigrazione da parte dei neoliberisti, la valorizzazione della città come spazio comune che va sottratto alle politiche di privatizzazione.

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