Intervento di Toni Antolini

23 marzo 2014
DOC

Considerazioni sulla partecipazione

Gli ultimi anni hanno visto l’utilizzo, all’interno di programmi utilizzati dall’Amministrazione comunale, di una serie di pratiche orientate alla partecipazione dei cittadini e di metodologie ispirate e al lavoro di empowerment delle comunità locali e alla mediazione sociale.

La partecipazione è l’attitudine naturale di qualsiasi società o comunità organizzata. Qualsiasi aggregazione informale che condivide spazi e opportunità, passioni, obiettivi e mentalità comuni, sviluppa forme di partecipazione. Fà quindi riflettere il fatto che da almeno un ventennio, la partecipazione, la vita sociale e relazionale necessitino di programmi appositamente creati per realizzarle.

Sembra si sia persa l’attitudine al confronto, sia esso dialogico che conflittuale. Sembra che gli uomini e le donne i ragazzi e le ragazzi le anziane e gli anziani, l’insieme della società, stia perdendo l’attitudine al confronto con chiunque sia “altro” da sé o dal proprio ristretto ambiente di prossimità.

La crisi della partecipazione e del dialogo sociale, l’incapacità di gestire la conflittualità in maniera positiva hanno concause complesse che vanno a toccare i meccanismi della comunicazione mass mediatica e gli stili comunicativi tra le persone, il loro rapporto con la società, la costruzione della realtà percepita, la crisi del concetto di spazio pubblico e di cosa pubblica, la modificazione delle città, l’accelerazione e la diversificazione dei tempi di lavoro e di spostamento, la precarietà e la transitorietà come postulato occupazionale, relazionale, ecc.

Tale crisi sembra avere quindi radici culturali economiche e politiche, anche se, spesso, pare che le esperienze di partecipazione e di autorganizzazione sociale, tutt’ora presenti, a livello spontaneo ed informale nel tessuto sociale ed urbano, non godano della necessaria attenzione da parte del mondo politico e degli amministratori e della necessaria visibilità da parte mondo della comunicazione; oggi più che mai, se un’esperienza non è visibile a questi livelli, non si sedimenta culturalmente e non si riproduce socialmente.

D’altra parte, se da un lato assistiamo alla crisi della partecipazione come modalità spontanea e culturalmente condivisa, dall’altro la partecipazione diviene una necessità del wellfare, di fronte alla crisi profonda e parallela dei tradizionali metodi di intervento sociale. Sono state diverse, anche se non omogenee ed integrate tra loro, le iniziative delle amministrazioni prese negli ultimi anni per favorire strumenti e forme di partecipazione.

Queste esperienze hanno visto le amministrazioni porsi come non come fornitori di servizi ma come coordinatori di programmi miranti a sperimentare nelle periferie interventi di prossimità, miranti al potenziamento delle risorse locali, alla riqualificazione partecipata del territorio, alla costruzione di reti collaborative, alla mediazione sociale. Sistemi complessi fatti di contributi di diversa natura, in un ottica di co-progettazione e co-costruzione, che hanno visto la collaborazione di soggetti pubblici e privati (istituzioni, scuole, associazioni, soggetti privati o comuni cittadini) che operano sul territorio con competenze specifiche

Tuttavia in quest’insieme di iniziative nate all’insegna della “partecipazione” possono essere iscritte forme e pratiche diverse che corrispondono a modalità di coinvolgimento molto diverse tra loro.

La partecipazione, in quanto dialogo tra differenti visioni e rappresentazioni della realtà per essere efficace dovrebbe in qualche modo comportare la de-strutturazione e la ri-costruzione della relazione con cui le amministrazioni si approcciano al cittadino in un processo che coinvolge istituzioni e cittadini nella ricerca di nuove modalità di interazione reciproca. Gli attori coinvolti dalla partecipazione dovrebbero poter essere in grado di comunicare reciprocamente e di comprendersi, riformulare i propri processi decisionali sulla base di sistemi di relazione più ampi e articolati rispetto a quelli tradizionali.

Spesso invece si confonde la partecipazione con un approccio sostanzialmente informativo, dove la comunicazione è sovente unidirezionale: l’ amministrazione informa, comunica, rende consapevoli i cittadini di scelte, soluzioni decise unilateralmente, attraverso gli strumenti propri della comunicazione esterna.

A volte si scelgono, da parte delle amministrazioni, modalità che prevedono oltre all’ informazione sulle scelte che l’ amministrazione intende compiere, momenti di ascolto della cittadinanza, le cui risposte ed opinioni serviranno eventualmente per una valutazione della qualità delle politiche e per una eventuale rimodulazione delle stesse.

Esistono poi livelli di partecipazione che sono basati sul confronto tra amministrazioni e cittadini e che sono definiti concertazione, partenariato, partecipazione, consultazione, negoziazione, accordi, patti, intese; l’immagine più frequente è quella di diversi attori che vengono messi a discutere attorno ad un tavolo. Anche questo livello può contenere una serie di sfumature che rendono più o meno inclusivo, maturo, profondo ed efficace il percorso partecipativo.

In alcuni casi l’amministrazione non è in grado di conoscere a sufficienza la situazione in cui vuole operare ed ha difficoltà a procurarsi le informazioni pertinenti. In questa circostanza il decisore è, in tutto o in parte, “cieco” ed è probabile che le misure che egli è in grado di prendere siano poco adatte ad affrontare il problema e incontrino difficoltà insormontabili in sede di attuazione. Capita cioè che interventi concepiti, con le migliori intenzioni, allo scopo di migliorare la situazione di una comunità locale, possano invece essere percepiti come sbagliati o addirittura come una minaccia.

È molto difficile che un esperto o l’amministratore che si vale della sua competenza riescano a riconoscere di essere ciechi su certi aspetti e di aver bisogno dell’apporto di chi vive sul territorio, ma senza questa attenzione si rischia semplicemente di incrinare il rapporto di fiducia (peraltro sempre precario) tra l’amministrazione e i cittadini, di creare ulteriori occasioni di tensione e offrire strutture, interventi o servizi che verranno giudicati negativamente dai diretti interessati.

L’esplodere di sempre nuove e complesse forme di conflittualità, la necessità di prevenire contrapposizioni rilevanti che si prevedono nel futuro, l’esigenza di fronteggiare il degrado e le nuove problematiche di una metropoli complessa, pone l’esigenza di allargare la partecipazione al processo decisionale. Le politiche pubbliche non possono essere messe in atto senza un’attiva partecipazione dei destinatari o di altri soggetti. Senza decisioni condivise con i cittadini, le misure adottate rischieranno di non avere alcun seguito.

Il processo di partecipazione può quindi essere costruito in maniera molto più complessa e coinvolgente, modificando sostanzialmente il ruolo e le percezioni di tutti gli attori coinvolti. e comportando l’ attivazione di programmi di animazione territoriale, di ricerca azione sui bisogni e le percezioni dei cittadini, di mediazione dei conflitti, che mirano a istaurare le condizioni per l’emergere dal tessuto sociale di soluzioni e modalità di gestione delle criticità ed instaurare processi di confronto finalizzato a prendere decisioni condivise tra amministrazione e cittadini.

La partecipazione è uno strumento democratico, è foriera di interazione sociale, di trasformazione di relazioni, di conflitti, può significare l’abbattimento delle barriere del pregiudizio e dello stereotipo e rappresentare uno strumento essenziale per riavviare il dialogo sociale. Occorre però optare per livelli di partecipazione profondi e in grado di trasformare la realtà, consapevoli del rischio di forme di partecipazione che non vanno oltre la consultazione o i cui livelli di decisionalità non sono in grado di ingenerare processi di cambiamento.

Partecipazione, conflitto e mediazioni

La partecipazione è incontro tra diversità. Non è solo il confronto tra amministrazioni e cittadini, ma può costituire l’ occasione di conoscenza, dialogo, confronto e conflitto tra gli stessi cittadini che partecipano. A volte la partecipazione genera una delle componenti dell’incontro tra diverse visioni e rappresentazioni della realtà: il conflitto.

Spesso le moderne metropoli generano conflitti di vicinato, di convivenza, complesse dinamiche accusatorie verso gruppi sociali stigmatizzati e minoritari. A volte il rilanciare occasioni di confronto tra i cittadini può rendere visibili dinamiche conflittuali vecchie di anni, situazioni mai chiarite, incancrenite. Spesso le amministrazioni sono chiamate a interventi risolutori da voci più forti di altre, dall’allarme sociale di turno, da situazioni di violenza latente o, purtroppo, agita.

Inoltre, a volte, una specifica decisione rischia di produrre rilevanti effetti negativi su un certo gruppo sociale o su una comunità. Del resto anche specifiche richieste (o proteste) dei cittadini rischiano di produrre effetti negativi sulle amministrazioni in termini di consenso, di credibilità, di coerenza programmatica.

La mediazione sociale e dei conflitti può qui assumere assume qui un ruolo generativo della partecipazione e del protagonismo dei cittadini, rafforzando le reti sociali, la comunicazione positiva, il senso di appartenenza alla comunità locale e al territorio, riavviando il dialogo sociale. Si parte dai conflitti per avviare un complesso sistema di relazioni tese a facilitare il confronto sulle soluzioni possibili e praticabili alle criticità del territorio, avviando collaborazioni e partenariati con le Amministrazioni, tutte azioni tese alla gestione partecipata dei problemi, trasformando così il conflitto in qualcosa di generativo di una realtà prima inesistente.

La mediazione stimola una riflessione sulla soluzione possibile – o meglio, sulla migliore modalità di gestione possibile – facendo fare alle persone un percorso esperienziale in cui spesso, le fantasie risolutorie si scontrano con il dato di realtà (i limiti oggettivi dell’attivazione della cittadinanza, i limiti delle competenze dell’Amministrazione, la genesi globale e non locale di alcune problematiche, ecc.) generando nei cittadini apprendimento, maggiore consapevolezza, soluzioni alternative e creative, ricerca di partenariati, di alleanze e di nuove collaborazioni alla gestione condivisa dei problemi sociali.

Tuttavia, tale processo, anche se virtuoso, in assenza di una diffusione in profondità (non solo tra i cittadini, ma anche nel privato sociale che gestisce servizi e nelle Amministrazioni) di valori e di una cultura della gestione non violenta del conflitto, e dell’inserimento della mediazione sociale in programmi di sviluppo locale integrati e articolati a più livelli, può generare eccessive aspettative, confusioni e malintesi.

Il rischio che la mediazione corre è quello di non rappresentare contemporaneamente un mezzo e un fine, ma solo un metodo utile per la costruzione di un sistema di rassicurazione dell’opinione pubblica e di costruzione di consenso, che rischia, tra l’altro, di essere usato come sostitutivo a buon mercato di interventi strutturali necessari e quasi sempre imprescindibili in contesti sociali degradati e deprivati.

Quello di cui si sente l’assenza, è una pratica sociale pubblica nella quale, alla mobilitazione sociale riguardante la partecipazione, si affianchino processi educativi (non solo rivolti agli adolescenti o ai bambini delle scuole, ma agli adulti, agli operatori, ai politici e agli amministratori) che trasmettano modalità diverse e concrete di analisi e di approccio ai conflitti e azioni istituzionali sul piano socio economico e della sicurezza sociale.

Per ingenerare condizioni di vita e relazioni serene nei territori è essenziale affrontare i problemi che favoriscono la conflittualità diffusa: la povertà e l’ingiustizia, la mancanza di partecipazione alle decisioni amministrative che riguardano il territorio e quindi la vita delle persone che lo abitano. Un approccio che non neghi la realtà del conflitto, ma che lo utilizzi come punto di partenza per un interventi concreti e diversificati alle criticità del territorio dal punto di vista della sicurezza sociale, del reddito, della riqualificazione urbana partecipata, della cittadinanza attiva e della educazione alla gestione dei conflitti.

Sembra inoltre che il concetto di sicurezza urbana, che tra l’altro non ha avuto molto seguito nelle politiche delle amministrazioni locali, piuttosto che evolvere coniugandosi maggiormente con il contrasto alla povertà e all’emarginazione, con lo stato di salute e di fruibilità dell’ambiente urbano, con la possibilità di usufruire pienamente dei diritti di cittadinanza e con la partecipazione, si sia situato nel campo della costruzione di una sorta di sistema di rassicurazione, fatto di visibilità mediatica, di eventi, di spettacolarizzazione di interventi spacciati per risolutori ma che in realtà rimandano nel tempo l’insorgere di ulteriori conflitti, e che in definitiva lasciano il campo libero agli interventi di pura repressione, richiesti a gran voce dall’opinione pubblica di fronte all’incancrenirsi dei problemi sociali.

Tale approccio, ampiamente diffuso, non solo nel nostro paese, ma a livello planetario, pare ignorare il dibattito sulla sicurezza presente all’interno addirittura degli organismi internazionali, dal momento in cui, nel 1994, il Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) ha delineato per la prima volta il concetto di sicurezza umana.

Il 2001 ha visto la formazione della Commissione sulla sicurezza umana, che nel 2003, stila il rapporto Human Security Now, dove esamina l’evoluzione del concetto di sicurezza definendola come «la protezione delle libertà fondamentali, cioè delle libertà che sono l’essenza della vita» e «la protezione degli individui dalle minacce e dalle situazioni critiche e pervasive». Questo rapporto identifica l’empowerment come una delle due chiavi, insieme alla protezione sociale, per la realizzazione della sicurezza umana.

La Commissione sulla sicurezza umana dell’ONU sottolinea inoltre l’importanza di sviluppare la forza e le capacità delle comunità e delle persone, mettendoli in grado di trovare il loro percorso autonomo di sviluppo:

“La capacità delle persone di agire a proprio favore – e a favore degli altri – è la seconda chiave per la sicurezza umana. Sostenere questa capacità differenzia la sicurezza umana dalla sicurezza degli stati, dall’assistenza umanitaria e persino da gran parte dell’assistenza allo sviluppo”. In questo senso, “l’’ empowerment è importante perché le persone sviluppino il loro potenziale come individui e come comunità”.

In quest’ottica si sente forte il bisogno di sviluppare un’attenta riflessione su concetti nuovi di sicurezza sociale, basati sullo sviluppo locale della capacità individuale e collettiva di far fronte alle problematiche inerenti i diritti, la convivenza, il riconoscimento dell’alterità, e, per estensione, diviene una tematica inerente la pace e la gestione non violenta delle relazioni.

Partecipazione oltre la consultazione: il coinvolgimento attivo nella gestione del territorio.

Il problema irrisolto della partecipazione è quale rapporto debba intercorrere fra le amministrazioni, il mondo del sapere, professionalizzato e specializzato, e mondi della vita quotidiana,

Esperienze di welfare in cui questi differenti mondi interagiscono e cooperano, si stanno diffondendo in tutto il mondo e rappresentano – al di là dei sistemi di democrazia rappresentativa denotati spesso da meccanismi di delega passiva del cittadino verso le istituzioni – elementi di una buona politica di democrazia del quotidiano, del locale: la possibilità, del tutto ignorata, di mobilitare l’enorme “deposito” di energia, di spirito di iniziativa, del cittadino.

In questo contesto di democrazia “passiva” sarebbe molto importante diffondere e dare risalto alle esperienze di welfare (o di wellbeing, stare a proprio agio…nel proprio territorio) che abbiano carattere innovativo e che siano basate non solo sull’ascolto delle esigenze della popolazioni e su decisioni prese in base a questo ascolto, ma sulla nascita di beni e servizi coprogettati con i cittadini e gestiti con il diretto coinvolgimento delle persone a cui questi beni e servizi sono destinati.

Sarebbe questo un modo di “sfidare” e di mettere in discussione la passività del cittadino e l’autoreferenzialità delle istituzioni, oltre che di produrre reddito per molte persone direttamente nel luogo di residenza. Esempi di queste buone pratiche esistono anche in Italia e andrebbero raccontate, perché spesso restano sconosciute, localizzate e frammentate. Molte di queste esperienze hanno un’origine anglosassone e, per la verità, molte esperienze di grande interesse avvengono nei paesi in via di sviluppo o di recente sviluppo: Brasile, India, ecc.

Fa fatica, invece, ad affermarsi una cultura della partecipazione che divenga politica pubblica, che vada oltre la mera consultazione che lascia inalterata la separazione tra istituzione e cittadini e tra gli stessi abitanti dei territori. Una strategia di carattere generale, che veda l’integrazione tra i vari livelli e le varie competenze delle amministrazioni, nella gestione di programmi e finanziamenti pubblici non settoriali e che premino e incentivino la costituzioni di reti partecipative sui territori, che perseguano ipotesi di trasformazione.

E non solo come ipotesi di trasformazione delle politiche di welfare in senso generale, ma anche come ipotesi di ricerca di un diverso equilibrio sociale, ad esempio tra il potere delle amministrazioni, quello degli “esperti” (progettisti, operatori) e quello, oggi molto scarso, delle persone comuni. Nei territori esistono gruppi informali e reti di persone che si incontrano perché condividono le stesse esigenze e assieme risolvono i problemi comuni .

L’idea è che se ti metti assieme ad altre famiglie puoi avere cose, servizi, che da solo non potresti permetterti, come pure una qualità dell’abitare (ma anche delle relazioni) migliore di quanto non accada nei normali contesti abitativi. Organizzare servizi comuni, di assistenza, di cura del territorio anche rinverdendo in qualche modo il vecchio scambio di favori.

Tale scienza di quartiere, utilizza anche risorse professionali, giocando però sui rapporti personali dove entra in gioco l’identità personale, l’essere attivi, il “ricevo e in parte faccio”. Accanto a queste esperienze che potrebbero essere maggiormente valorizzate all’interno delle pratiche di partecipazione, c’è l’idea che i beni e i servizi possano anche essere pensati come piattaforme, che consentono alle persone di assumersi dei ruoli.

La rete di collaborazioni e di relazioni può funzionare come un ambiente per condividere risorse e gestire attivamente processi di soddisfazione di bisogni, di arricchimento, di crescita, di informazione. Il cittadino, sempre di più, oltre alla sua competenza potrebbe sviluppare, in tali processi valorizzati dalla partecipazione, competenze di tipo comunicativo, di tipo relazionale.

Se le politiche di partecipazione si spingessero nella ricerca delle competenze dei singoli e dei gruppi di cittadini, incentivando anche con finanziamenti mirati la messa in rete di queste competenze, la nascita di imprese locali rispondenti ai bisogni del territorio, si produrrebbe un grande valore dal punto di vista della valorizzazione del locale, della riduzione dei conflitti, del reddito e della qualità della vita.

Un’amministrazione comunale intelligente dovrebbe ravvisare nello sviluppo di queste pratiche un suo proprio interesse e, certamente, potrebbe fare molto per assecondarle, renderle visibili, dar loro un quadro e creare le condizioni favorevoli. Per esempio, semplificando le procedure burocratiche, montando palcoscenici, offrendo spazi a chi queste cose le ha sviluppate, le sta sviluppando. Insomma, assecondare attivamente mettere all’opera l’intelligenza diffusa, offrire piattaforme per far emergere quello che di produttivo, di progressivo si esprime.

L’importanza dell’empowerment

Per alcuni studiosi, tra cui Johan Galtung ed Ernst Schumacher , ciò che impedisce la partecipazione delle persone comuni alle politiche riguardanti il territorio, è a livello strutturale, la “scala”, la vastità del territorio. Ad esempio, nelle grandi metropoli, la continua espansione del territorio e delle problematiche da governare, nasconde le conseguenze delle azioni degli amministratori. “In effetti è come se le braccia fossero così allungate da non riuscire a vedere quello che le mani fanno”.

In comunità più piccole, le persone vedono gli effetti delle loro azioni e se ne assumono interamente la responsabilità. Le strutture a piccola scala limitano il potere delle persone e dei leader. C’è una differenza forte tra un Amministratore di una grande città e il leader di un comitato di quartiere. Il primo ha possibilità di influenzare con le sue azioni e decisioni la vita di milioni di persone di cui ovviamente non conosce l’identità precisa, con cui non ha un contatto reale, il secondo influenza ed è influenzato da poche centinaia di persone ed è una parte attiva della comunità, è diretta espressione delle problematiche locali.

La scala della grande metropoli, è così vasta e problematica che gli amministratori non possono agire secondo i principi della partecipazione e dell’interdipendenza anche se lo vogliono e spesso le politiche vengono definite in accordo con necessità economiche e politiche, spesso senza considerare appieno le implicazioni per i singoli territori, le comunità e le persone. In situazioni più decentrate e circoscritte, è difficile ignorare i meccanismi di interdipendenza. Essere responsabili personalmente dentro una comunità significa essere continuamente sintonizzati sulle sue dinamiche personali ed ambientali.

Poiché le conseguenze di ogni azione sono più evidenti in una comunità più piccola, le decisioni devono tener conto di tutte le dinamiche interne al territorio. Una dimensione di partecipazione locale, minimizza la necessità di interventi dall’alto verso il basso, permette una interazione centro periferia più armoniosa e flessibile e da luogo ad azioni basate sulle necessità del contesto locale. Quando le persone si sentono viceversa in balia di decisioni lontane e burocratiche si sentono insicure, passive ed impotenti, prive di potere.

Pratiche di partecipazione, basate sull’integrazione, la coerenza, la concretezza e la presa in considerazione delle maggiori fattori di crisi di un contesto territoriale, così come vengono riportati dagli abitanti, possono favorire la comunicazione, l’appartenenza, lo stabilire a livello di comunità locali patti di cittadinanza efficaci tra gli abitanti, le differenti culture, le generazioni e riavviare la comunicazione tra territori e istituzioni.

Le prassi orientate all’empowerment di comunità, favoriscono la progressiva responsabilizzazione delle comunità locali nella gestione condivisa degli aspetti legati al vivere quotidiano, curando soprattutto la promozione di una cultura del dialogo sociale, attraverso la costruzione di processi sociali in cui i cittadini stessi partecipano al soddisfacimento delle esigenze comuni attraverso prassi orientate essenzialmente sul potere del dialogo e della partecipazione. In questo modo si realizzano condizioni di maggior senso di sicurezza attraverso quello che molti studiosi pacifisti chiamano il potere morbido.

Con ciò si intende riaffermare la realizzazione delle condizioni sociali per cui, i cittadini possano sentirsi sicuri e a proprio agio nell’ambiente quotidiano di vita.

Per sostenere i processi di partecipazione a livello locale, è inoltre necessario rafforzare l’orientamento delle Amministrazioni in direzione dell’ascolto e del dialogo e dell’apertura alle istanze che vengono direttamente dai territori. Infatti, mai come oggi la società civile può essere un partner necessario e indispensabile a definire lo sviluppo sociale ed economico del territorio. Occorre pensare nuovi strumenti che consentano la piena partecipazione al processo del dialogo tra territori ed istituzioni, strumenti che comportino la piena integrazione tra quelli già predisposti dall’Amministrazione riguardo la partecipazione (Contratti di quartiere, piani sociali partecipati ecc.).

La situazione attuale, mette in risalto la necessità di un forte potenziamento della comunicazione e dell’integrazione tra i vari compartimenti dell’Amministrazione Comunale, e dei Municipi e la creazione di reti di partecipazione nei quartieri. Le popolazioni non dovrebbero essere considerate soltanto come beneficiarie di programmi, ma che con adeguati progetti di sostegno, potrebbero divenire a tutti gli effetti attori di cambiamento, attraverso opportuni ed idonei processi di empowerment territoriale, di progettazione locale partecipata .

Attraverso specifici percorsi di animazione e mediazione sociale, è possibile far emergere dalla popolazione istanze, bisogni e soluzioni ai problemi che difficilmente emergerebbero e che sono pertinenti ed efficaci perché provenienti proprio dai diretti interessati alla qualità della vita dei territori: gli stessi abitanti. Condividere con i territori fallimenti e successi, imparare dalle reciproche esperienze, potrebbe favorire nelle Amministrazioni locali e centrali, una politica dell’ascolto che tenga conto veramente dei vari e spesso disomogenei punti di vista dei cittadini attivi, delineando prassi e azioni i grado di soddisfare i bisogni reali delle persone.

Il sostegno alla comunità locale consente da un lato di resistere agli effetti destrutturanti dell’anomia e della perdita di identità propri delle moderne metropoli, e dall’altro permette a settori della popolazione un rapporto di confronto positivo con settori dell’Amministrazione a fronte di nuove e vecchie problematiche territoriali irrisolte.

La partecipazione ha un futuro?

Come si cede il panorama delle pratiche partecipative è molto vasto e comprende una vasta serie di metodologie (lavoro di comunità, mediazione dei conflitti, empowerment territoriale, ecc). non sempre la partecipazione viene usata in modo tale da valorizzarne appieno le vastissime potenzialità. Produrre davvero percorsi di partecipazione nella città che non siano semplici enunciati per produrre consenso politico, comporta attenzione e volontà di mettersi in discussione da parte delle amministrazioni e da parte di chi opera nel campo del sociale e richiede un’attenzione molto forte al metodo, alle strategie, alle specificità, ai tempi e alle esigenze dei singoli territori.

Nessun percorso partecipativo può essere eccessivamente standardizzato o spettacolarizzato senza perdere di efficacia. Per questo la partecipazione non può essere una moda ma solo una pratica e un percorso faticoso quanto affascinante.

Nella città di Roma e nella sua provincia sono state tentate molte esperienze, pur differenti tra loro, basate sulla partecipazione, l’empowerment di comunità, la mediazione dei conflitti, ricordiamo i bilanci partecipativi e i bilanci sociali di municipi e comuni, alcuni laboratori di quartiere, le esperienze di urbanistica partecipata, i programmi di mediazione sociale, alcune esperienze di lavoro con i giovani.

Spesso però la partecipazione “non sfonda” per impedimenti oggettivi e materiali o per debolezza intrinseca alla proposta. Non basta costruire occasioni e progetti basati sulla partecipazione della cittadinanza perché questa avvenga.

Le politiche partecipative e le pratiche di mediazione sociale e di empowerment comunitario sono di recente introduzione nel nostro paese e la loro affermazione nella cultura del lavoro sociale necessità certamente di molto più tempo.

Inoltre, a fronte di differenti contesti in cui si applicherebbero le pratiche di partecipazione, manca il confronto e il dibattito metodologico tra le diverse esperienze e l’individuazione delle competenze necessarie. Si utilizzano metodologie importate senza contestualizzarle al territorio e manca una formazione accessibile agli operatori.

La sensazione è che la partecipazione e le pratiche che prevedano il coinvolgimento profondo della popolazione nella decisionalità e nell’attuazione del welfare locale, non abbiano capacità di attrazione sia per i decisori (mondo della politica e amministrazioni) che per la popolazione in genere. E’ evidente che il mondo della politica preferisca altri modi, meno complessi e orizzontali, per la gestione del territorio e della conflittualità sociale.

Ancora subentrano altre domande: perché l’esperienza non violenta di Gandhi è fallita proprio laddove ha riscosso i suoi più evidenti successi? E perché le esperienze di partecipazione di alcuni paesi sud americani (Brasile, Argentina) e del Sud africa post apartheid restano un modello apprezzato ma non valorizzato ed adattato in differenti contesti?

Forse la partecipazione, termini come mediazione, lavoro di rete, sviluppo locale, sono termini e concetti abusati, significano troppe cose finendo per non significare niente; vanno bene un po’ per tutto, non indicando niente con precisione. Forse richiede alle istituzioni di uscire dall’autoreferenzialità, quando per loro natura sono autoreferenziali. Forse richiede al cittadino una presa di responsabilità che è oggettivamente faticosa se si sposa con gli allucinanti ritmi della vita contemporanea

(Toni Antolini,mediatore sociale di Roma)

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